martedì 24 novembre 2009

Emmaus


Ho letto Emmaus
L'ho riletto, anche.
Si fa strada l'idea che questo libro non sia nelle mie corde se non per il fatto che contiene i temi e i riferimenti a quello che appartiene già a Baricco e a me.

Mi interessa come passo di un percorso d’autore che si intreccia in qualche modo alla mia vita e non è solo parte delle mie letture.
Non credo che Emmaus abbia aggiunto molto ai nomi che do alle cose e alle esperienze che vivo. Qualche piccola luce, sfumature. Niente bagliori epifanici capaci di illuminare zone oscure. Difficile che di Emmaus mi resti molto. Difficile che mi resti qualcosa che non fosse già altrove. Già rivelata.

Qualche emozione me l'ha lasciata, ma non di quelle emozioni figlie di un piacere delle corde o del cervello, oppure dello stupore che incantata o dell'enigma che affascina. Mi ha lasciato come emozione una sorta di oppressione opaca.
È una sensazione cupa, come di nebbia di sera mentre cammini sulla strada di casa di cui conosci ogni buca sul marciapiede e ogni filo d'erba che cresce nelle crepe del muro che costeggi.
E mi fa pensare, di contro, a quello che Baricco stesso diceva dell’effetto di disorientamento costruito per il lettore di City.
"tu a poco a poco diventi come una persona che si sta perdendo in una città. Questo ti rende più debole. A un certo punto sei un po' persa. Senti una musica di una fisarmonica. E tu senti qualcosa e dici: che emozione".
In Emmaus non puoi perderti, perché quella è la strada di casa. Ma non puoi neanche percorrere quella strada meccanicamente, senza vedere quello che guardi come si fa di solito con le strade di casa, perché c'è la nebbia che ti costringe a cercare ogni cosa che conosci, buca sul marciapiede o erba nella crepa del muro, per capire a che punto del percorso consueto sei arrivato. Conti i bagliori delle luci dei lampioni e sai sempre dove sei.
Nella nebbia, ma senza possibilità di perderti.
Immagino che anche questo effetto sia stato voluto da Baricco, come era voluto l'effetto del disorientamento ai tempi di City.
Lo accetto, ma sento il bisogno di chiudere con Emmaus e respirare aria più luminosa. Scriverci qualcosa e passare ad altro.
City mi aveva lasciato un bisogno di rilettura e la voglia di scavarci dentro.
Emmaus mi lascia il bisogno di chiudere con Emmaus.
Per chiudere con Emmaus però devo guardarlo in faccia e riconoscerlo lungo la strada di casa.
Potrei partire da questa cosa che qualcuno ha scritto sulla mailing-list di Oceanomare.com e che condivido:
Più vero di Questa Storia. Più essenziale di Senza Sangue. Meno cervellotico di City. Meno romanzo di quanto non dica quella scritta sulla copertina, infinitamente meno.
O da quest’altra:
Emmaus, Questa storia... erano già dentro di lui anche quando ha scritto Oceano mare, o Castelli di Rabbia, ma in forme e con urgenze diverse; sono le sue mille facce, è la sua complessità, è, in un certo senso la sua "arte".
Non c'è una svolta tematica in Emmaus, ché le buche sul marciapiede e i fili d'erba nelle crepe del muro sono quelli di sempre.
È l'evoluzione stilistica che non mi sembra la consueta sperimentazione di strumenti diversi per arrivare all'autentico attraverso la stessa tecnica di sempre.
Baricco stesso spiegava che la sua scrittura mirava a prendere l'autentico alle spalle, attraverso qualcosa di apertamente artificiale che, da dentro il nostro immaginario collettivo fosse stata capace di evocare bagliori epifanici dalle feritoie della superficie del reale (ché la vita vera, quella, si sa, non parla).
In Emmaus mi sembra di intravedere qualcosa di diverso sotto l'evidente asciugarsi della scrittura. Come il tentativo di un'altra scrittura. La ricerca di un altro modo per arrivare all'autentico.
Come se avesse detto: e vabbe', proviamo una nuova tecnica e vediamo se arriviamo agli stessi risultati o chissà dove.
E questa cosa poi, vai a capire perché, era nell'aria.
Come se sapessi che non poteva continuare con quella scrittura. Come se con Questa storia fosse chiaro che avesse messo un punto a quella scrittura.
Come se non ci fossero più spiragli per quello.
Ultimo si chiama il personaggio intorno al quale ruota Questa storia.
Penso all'ultima lezione di Kilroy in Lezione 21... era scrittura vecchia ormai quella di Baricco.
Penso che non avrebbe potuto fare altrimenti.
Certo, si potrebbe dire che in realtà Baricco con Emmaus sta solo guardando in faccia, una volta di più la sporcheria dolcissima del nostro vivere dentro i racconti che ci facciamo, unica alternativa al morire (o più probabilmente l'altra faccia del nostro morire). Si potrebbe dire che sta solo raccontando il nostro immaginario, utilizzando stavolta come parabola, anziché western, fumetti, film e letteratura americana, romanzi ottocenteschi e poemi omerici, quella peculiare narrazione che sono i testi sacri. Si può sicuramente dirlo e sentirsi sulla strada di casa, Iliade, Moby Dick, Vangelo, depositi di archetipi della narrazione.



Eppure, alla fine, c'è qualcosa che non quadra. Non mi sembra esattamente lo stesso tipo di lavoro.
La verità è che la continuità con i romanzi precedenti io la vedo proprio nell’offrirsi della scrittura di Emmaus come immagine speculare della scrittura dei romanzi precedenti..
Quello che mi sembra di vedere, guardando la scrittura di Emmaus, è un calco della scrittura costruita in precedenza da Baricco.
Come se avesse rivoltato uno di quegli stampini di gomma per dolci. Dove c'erano i vuoti, qui ci sono i pieni e viceversa.
Dove c’erano immagini visionarie costruite da una scrittura di una ricchezza debordante, qui ci sono parole di un nitore tagliente offerte da una scrittura di una perfezione essenziale.
Dove c'erano mondi narrativi che partivano da testi e sequenze cinematografiche per arrivare ad effetti di realtà, qui c'è un mondo in qualche modo reale che parte da contesti e ricordi di frammenti di vissuto per arrivare alla più alta delle costruzioni dell'immaginario condiviso, la dottrina del sacro.
Dove prevaleva una dimensione spaziale della scrittura, che accostava le storie come quartieri di una città, qui la variabile principale è il tempo, che sembra l'unico fattore determinante di accadimenti che non si dispiegano mai in una storia.
Dove c'era un punto di vista esploso, multifocale, senza centro, qui c'è un punto di vista immobile, a focale fissa, collocato in un punto preciso del tempo, esterno agli accadimenti.
Dove c'erano voci narranti che si specchiavano e sovrapponevano o si incastravano in un gioco di scatole cinesi, qui c'è un racconto che si srotola monocorde da un'unica voce, e poco importa che Baricco esibisca il “noi”, di un soggetto plurale.
Dove c'erano spinte centrifughe che portavano la mente o il cuore del lettore ad espandersi e vagare per le distese immaginate dal proprio sguardo o a inabissarsi nelle profondità percepite dalla propria sensibilità, qui c'è una forza centripeta che porta la mente o il cuore del lettore verso un punto immobile al centro della materia di cui è fatto.
Dove c'erano le Ninfee, senza coordinate, galleggianti in uno spazio senza gerarchie in cui non esistono vicinanza e lontananza, sopra e sotto, prima e dopo, che ruotavano, messe in movimento dalla curvatura delle pareti, a ritrarre lo sguardo di un occhio impossibile, qui c'è una Madonna nella totale l'immobilità di un sempre, senza peso che debba cadere, o piega fermata in qualche sciogliersi, o gesto da portare a termine, senza arresto del tempo nel taglio tra un prima e un dopo, in cui lo sguardo si inabissa, seguendo una traccia che sembra obbligata e si fissa in un unico punto, gli occhi vuoti, fatti per ricevere lo sguardo, cuore cieco del mondo.


Eppure...
Eppure i personaggi sono come sempre figurine di carta, icone, per quanto ci sia qualche elemento di descrizione in più.
Eppure la storia non è comunque una trama, e il libro è molto meno romanzo di quanto si potesse immaginare dalle anticipazioni e dalle recensioni sui giornali.
Eppure il tempo e lo spazio non sono, a guardarli bene, così contestualizzati come potrebbe sembrare e Torino e il Cattolicesimo degli anni settanta, non sono, in definitiva, altro che una città invisibile della mente, a metà strada tra memoria e immaginario, collocata in quel punto in cui i nomi che diamo alle cose e il nostro morire sfumano gli uni nell'altro.
Eppure il sistema percettivo anomalo di cui è calco l'occhio impossibile delle Ninfee è una condizione di dolore e negli occhi della divinità impossibile della madre vergine riposa lo sguardo di tutto ciò che nell'esperienza umana conosciamo come strazio e squarcio.


Un calco non è che il medesimo oggetto visto dall'alta parte. E alla fine, sono esattamente al punto di partenza.
Mi sa che non ho ancora chiuso con Emmaus.
MT

domenica 8 novembre 2009

Prima di rileggere Lezione ventuno

Nel sito labcity.it adesso c’è una pagina dedicata a Lezione ventuno con la trascrizione dei testi delle scene del film in cui compare il prof. Kilroy o si parla di lui. Gli attori dettavano. Io scrivevo
Rivedendo quelle scene, mi è venuta voglia di gustarmi l’intero film al pc, da vicino, come leggendo un libro, soffermandomi sui fotogrammi o riascoltando i brani, come sfogliando delle pagine.
Prima di questo esperimento di lettura del film, però, sono andata a cercare quello che avevo scritto da qualche parte, subito dopo avere visto il film al cinema. Così mi è sembrato che questo spazio, annidato tra le pieghe del lavoro che sto facendo su City, fosse il posto adatto per accogliere quei pensieri che di quel lavoro sono indubbiamente un riflesso.


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Ho atteso l’uscita del film col gusto di chi attende il piacere di una cosa che conosce già, come se in un certo senso lo avessi già visto e o letto. Troppi trailer e interviste per temere una delusione.
Guardando i trailer pensavo che i personaggi avevano proprio l'aspetto che mi immaginavo. Kilroy era uguale al Kilroy della mia mente. Martha era uguale alla mia Shatzy.
Sapevo anche che questo film, per me, avrebbe comunque generato un’onda lunga che sarebbe arrivata, un giorno, ad arenarsi dentro il sito su City a cui lavoro da anni e, come Shatzy col suo western, conto di non schiattare prima di averlo finito.
Avevo anche letto il commento, sulla mailing list dentro la quale scrivo, di qualcuno che legge Baricco con una focale che si avvicina alla mia e i suoi occhi mi avevano confermato il film che avevo in mente.
Poi ho visto il film.
Le prime domande che mi sono state fatte uscendo dal cinema sono state: "ti è piaciuto", ma anche "che significava". E mi mancavano le parole per entrambe le risposte ma avevo bisogno di silenzio e di far durare quella commozione che era venuta fuori senza che me ne rendessi conto, figlia di un’emozione che non c'era durante buona parte del film e che invece, dopo, continuava fuori dalla sala.
So bene che la commozione non è recensione positiva o negativa, e devo dire che, fino a un certo punto, durante il film provavo una netta sensazione di distanza, anzi, quasi il bisogno di prendere distanza, da alcune scene che mi sono sembrate decisamente brutte. Certe frasi che mescolavano alla dimensione onirica di un immaginario da romanzo ottocentesco riferimenti a metropolitane e discoteche, quiz televisivi, alieni, bastoncini di pesce, saranno state anche molto “barbare” in senso baricchiano ma il risultato era comunque grottesco. Poi ho pensato che il segreto era riuscire a leggere quelle immagini dissonati come frasi della lezione di Kilroy, raccontate dal suo personaggio, tra l'incanto e il fumetto. E allora ogni pezzo è andato a posto.
Forse il film avrebbe dovuto soffermarsi più su Kilroy e sul suo modo di fare lezione, per portare per mano lo spettatore dentro i mondi che passavano sullo schermo. Invece lascia quasi subito lo spettatore solo, nel cuore delle immagini, a faticare alla ricerca di punti fermi in una dimensione priva di coordinate spaziotemporali fisse. Eppure in mezzo a quel disorientamento, che costringe la mente ad essere vigile per cercare di raccapezzarsi, l’emozione in qualche modo lavora sotto.
La mattina dopo, dopo il silenzio di cui avevo bisogno per bere quella strana emozione, difficile da inquadrare, ma che a un certo punto era arrivata, ho pensato che Baricco l'ha fatto apposta, che ha fatto quella cosa che dice di aver fatto anche con City: disorientarti e farti sentire solo e perso in una città estranea per poi farti riconoscere una musica che ti appartiene, in lontananza, che altrimenti, nella tua città, non avresti notata (Baricco al salone del libro di Parigi del 2002). La musica che ti appartiene la senti, a un certo punto, mentre vaghi con dei punti interrogativi sulla faccia dentro Lezione 21, e ci sono note dappertutto, sparpagliate. Senti il Baricco che conosci e un sacco di cose che hai amato nei suoi libri. Ti si forma un sorriso ebete quando uno dei busti incipriati dice "voilà".
L'emozione di Lezione 21 è un’emozione che lavora senza farsi notare, e in sordina si allarga, mano a mano che riconosci le frasi, le immagini, i personaggi e le storie conosciute. Ed è un’emozione che continua a lavorare nel tempo.
Non è stato facile “vedere” un film. Quello era “il film di Baricco”.
Per tutto il tempo c’era l’ impressione di stare lì a leggere un suo libro. Solo che il libro stavolta aveva le figure in carne e ossa e la musica non la faceva Shatzy con la bocca.
Mentre le pagine del libro scorrevano sullo schermo, si sarebbe potuto dire “che noia, non c’è niente di nuovo” e invece era una sensazione confortante quel riconoscere il proprio sguardo su Baricco nello specchio del suo film.
Ma, se il mio sguardo su Lezione 21 è completamente fregato dalle 20 lezioni precedenti di Baricco, anche lo sguardo del Baricco di Lezione 21, è comunque quello delle sue 20 precedenti lezioni.
Si invecchia insieme. E a me piace.
Baricco non dà l'impressione di volere stupire con cose nuove da dire, ma di volere continuare a dire le sue cose, facendole dire a strumenti diversi, romanzi, saggi, letture teatrali, programmi tivù, interviste, barnum, film. Una sinfonia. Ogni strumento può suonare tutta la melodia, ma nel contempo aggiunge sfumature e colori alla sinfonia.
Forse, come diceva qualcuno in mailing, list questa tenacia è la sua forza e la sua condanna al tempo stesso. Delle due derive in cui invecchiano forza e leggerezza, che “sono inevitabili e sono le due portanti di tutti gli uomini” (secondo quanto Baricco ha detto a Mollica in un’intervita al Tg1), la deriva in cui invecchia la forza è la complessità che finisce con l’imprigionare la forza stessa dentro le strutture sempre più articolate che costruisce. E lo sguardo di Baricco invecchia e acquisisce complessità, ma non si distoglie dal panorama che ama guardare.
É un film sulla vecchiaia Lezione 21, dell’uomo e dei tempi. Era gia in nuce ne I barbari e Baricco dice che ogni sua opera porta dentro già in nuce la successiva. Se dovessi riassumerlo in una frase, direi che tratta di un’istantanea sul destino dell'uomo, solo nel ghiaccio che costruisce il suo attimo di bellezza dentro il suo morire, anzi come dice Kilroy, in cambio del suo morire. Dice in cambio del morire e non in cambio della morte. E fa differenza.
E' c'è tutto Baricco. Il resto è complessità, e nomi per storie da raccontarsi, e tempo che passa. «Morire e dare nomi - non si fa altro di sincero, probabilmente, per il tutto il tempo che si campa» dice Baricco in Questa storia.
Arriverà anche per Baricco il momento in cui gli altri lo percepiranno come ‘vecchio’ e pesante e gli preferiranno la leggerezza di un Rossini nuovo, ammesso che non sia già arrivato.
Ho sentito tanti lettori che avevano adorato Oceano mare non riconoscere più il proprio sguardo nello specchio delle opere di Baricco già a partire da City. Ho sentito altri annoiarsi perché Baricco non fa più nulla di veramente nuovo.
Ho ascoltato una giornalista dire per radio che Lezione 21 non richiama l'immaginario dei suoi libri, forse le sue passioni, la sua presunzione ma l'immaginario è decisamente diverso.
In Lezione 21 a un certo punto Martha dice una cosa tipo che Beethoven era stato abbandonato perché faceva musica colta e il grosso pubblico non lo capiva. Ma Kilroy le risponde una cosa tipo: cazzate! era intelligente il pubblico di Beethoven prima e poi diventarono tutti cretini? No... in quei dieci anni il mondo era cambiato e loro erano andati avanti col mondo. Beethoven era il vecchio.
Mi sono sempre chiesta del rapporto di Baricco col suo pubblico, quello che ha amato Castelli di Rabbia e Oceano mare. Non erano più "facili" Castelli di rabbia e Oceano mare. Non lo erano affatto. Ma piacevano di più. C’erano le stesse cose che si ritrovano in tutto quello che Baricco ha fatto dopo già in Castelli di mare e Oceano mare. Ma piacevano di più.
Che significa?
I lettori sono andati avanti sulla strada della mutazione e lui, Baricco, è diventato il vecchio?
Questa forse è la natura delle cose se è vero che la gloria è una scia di merda dietro la schiena e la vita è un duello come dice il vecchio Bird, il pistolero del western di City. Uguale al Beethoven di Lezione 21, Bird. E Beethoven in Lezione 21 si vede per pochi secondi. Di spalle.
MT

sabato 29 agosto 2009

Anteprima dalla pagina in costruzione "Le strade"


«C’è l'idea che lo scrittore deve sottrarre un po' della sua forza al personaggio, sennò ne farà un eroe, un soggetto nel senso hegeliano del termine. Ora, se gli si preleva un po’ di questa forza, si deve trovare qualcosa d'altro a questo personaggio, e ciò, è interessante. Se non è “lui”, “lei”, o un altro, che resta nella storia? È molto bello, perché lavori in un paesaggio che tu non conosci, dove tu cerchi dei punti di forza differenti», afferma Baricco nel Dialogue con Anne Dufourmantelle che apre la raccolta di saggi Constellations.
Baricco descrive City come un libro costruito come una città in cui le storie sono i quartieri e i personaggi sono le strade. I personaggi sono presentati nella loro funzione di collegamento delle storie che strutturano il testo, sia nella prefazione sui risvolti di copertina della prima edizione, dove Baricco afferma: «questo libro è costruito come una città, come l’idea di una città. […]Le storie sono quartieri, i personaggi sono strade», sia nella presentazione di City sul sito abcity.it, dove specifica: «ci tenevo, a City, perché dice cosa questo libro è sempre stato, nella mia testa. Una città. […] Pensavo alle storie che avevo in mente come a dei quartieri. E immaginavo personaggi che erano strade, e alle volte iniziavano e morivano in un quartiere, altre attraversavano la città intera, infilzando quartieri e mondi che non c’entravano niente uno con l’altro e che pure erano la stessa città».
Se Baricco sottolinea la funzione di attraversamento e raccordo dei personaggi/strade, rispetto alle storie quartieri del libro/città, si potrebbe anche ipotizzare un testo strutturato come un web in cui i personaggi si muovono come un puntatore, attivando i link che aprono e connettono i nodi dell'ipertesto. In ogni caso, si può dire che i personaggi di City assolvono al duplice ruolo di rivelazione dei mondi racchiusi nelle storie del testo e di riduzione ad unità di essi.
Sono personaggi deboli, a cui Baricco ha sottratto forza di soggetto per dotarli di un peculiare potenziale evocativo. Non sono “eroi”, ma sono il distillato di schiere di personaggi della letteratura, ma anche e soprattutto del cinema e dei fumetti e cartoon, sedimentati nei mondi dell'immaginario collettivo. Si muovono, richiamando da quei territori comuni emozioni condivise dai lettori. Sono personaggi già letti o già visti che non bisogna sforzarsi di ricostruire nella loro peculiare identità, ma che basta limitarsi a riconoscere da tratti appena accennati che rimandano a mondi narrativi non solo letterari, ma che costituiscono una costellazione «di esperienze diverse e in qualche modo anche equalizzate» secondo il modello di scrittura che Baricco espone durante l'incontro-conferenza con Doninelli del 2000 al CMC.
Il concetto è quello che, per l’uomo della postmodernità, un effetto di autenticità sia raggiungibile più facilmente ricorrendo all’evocazione delle repliche della realtà nei mondi dell’immaginario, che non col tentativo di descrivere direttamente la realtà esperienziale. Il soggetto mutante di cui parla Baricco ne I barbari , infatti, abita sempre più spesso le descrizioni del mondo, anziché il mondo stesso e utilizza tali descrizioni come strumento di percezione, di decodifica e di comunicazione delle esperienze.
Così, i personaggi di City vivono poco di vita propria, ma, come telecamere, riprendono per conto del lettore le visioni del suo stesso immaginario. Sono più forme che sostanze ma, se ogni lettore può riempire le forme con il proprio sguardo, assumendo una propria prospettiva, sono i personaggi a segnare comunque, come strade, il percorso e a ridurre il margine di soggettività, in quanto tengono lo sguardo del lettore ancorato ai mondi di un immaginario condiviso e quindi dotato di una sua oggettività. Lo scopo è sempre quello di arrivare a “stringere il cuore” di una qualche autenticità, prendendolo alle spalle attraverso l’aperta artificialità dei mondi narrativi dell’oggi.
[…]
Il passo ulteriore, allora, è chiedersi su quali mondi Baricco voglia aprire lo sguardo del lettore attraverso gli sguardi dei personaggi di City e se, al di là dell’apparente frammentarietà, sia possibile cogliere una prospettiva capace di ricondurre a una sorta di unità quegli sguardi.
L’ambizione del progetto sta proprio nel tentativo di costruzione di una scrittura, sul modello già individuato nel barnum sulla Mezquita di Cordova, che conduca il lettore fin dentro uno “spazio-esperienza” capace di cristallizzare mille tempi, mondi, e materiali diversi e lo faccia sentire «da un sacco di parti, e per un istante, ma sgranato su secoli».
Ogni personaggio/strada/link di City così guida il lettore verso quell’idea di esperienza aprendo l’accesso ai differenti mondi, stratificati eppure compresenti, del testo e riconducendoli all’unità molteplice di una “piccola mezquita del quotidiano”. Non si tratta della rappresentazione di visioni parallele affidate a personaggi differenti e neanche della descrizione di salti dei personaggi in dimensioni dell’immaginario, come tali distinte dalla realtà diegetica in cui essi vivono. Baricco cerca invece di costruire una visione simultanea dell’irriducibile molteplicità di una realtà in cui i piani dell’immaginario e dell’esperienza sono ormai confusi nella percezione del soggetto, sia esso lettore, autore o personaggio. È una realtà in cui la centralità del soggetto – sia pure del soggetto alienato della modernità – ha ceduto il passo alla centralità dei media che ne restituiscono l’immagine frammentata e infinitamente replicabile che Baricco descrive nel suo barnum su Tokyo del ’98 come «un videogame in cui tutto è già mondo esploso, e replicante».
Il discorso torna allora al contesto narrativo e alla ricerca della tecnica descrittiva capace di “metabolizzare” la caotica simultaneità di una realtà di questo tipo e di restituirne l’essenza più autentica. Baricco lavora più che sulle voci, sugli sguardi per costruire uno sguardo impossibile, schizofrenico ed estremamente mobile, capace di prospettive a specchio o a incastro ma anche di mantenere nel contempo una qualche forma di unità. Ricorre, in sostanza, più che alla polifonia delle voci narrative, alla multifocalità dei punti di vista e fa mettere a fuoco dai personaggi di City la loro realtà, che è la stessa realtà in cui si muovono insieme a lettore e autore, da distanze e angoli visuali differenti. Costruisce personaggi che replicano se stessi nei loro mondi immaginari, mentre doppi schizofrenici di essi si incastrano nelle pieghe della diegesi come specchi deformanti. Nessun punto di vista è veramente centrale e di ogni personaggio ci si chiede dove finisca l’identità diegetica e dove cominci l’immagine visionaria costruita dall’immaginario di un altro personaggio o dal lettore stesso.
Scopo ultimo di Baricco tuttavia, non è neanche la descrizione della realtà per mezzo di uno sguardo adatto a coglierla, ma proprio la descrizione di quello sguardo e della sua costruzione e solo indirettamente la restituzione, presa alle spalle, della realtà. Quello che costruisce Baricco è lo sguardo di un occhio impossibile, frutto di un sistema percettivo mobile e senza centro, deformato da una condizione di dolore che, in quanto condizione condivisa, è ciò che riconduce a unità gli sguardi dei diversi personaggi.
Si può identificare quel sistema percettivo con lo sguardo anomalo, filtrato dalla pazzia, del personaggio di Ruth, plausibile narratore interno a City; si può anche considerarlo il risultato, costruito e descritto da un narratore esterno, dell’incrociarsi degli sguardi di tutti i personaggi; l’unità è comunque in quella condizione di dolore che compone in un’unica visione schegge di sguardi che, da distanze e angoli visuali differenti, fanno comunque male.
MT

Il prof. Mondrian Kilroy e Martha in "Lezione 21"

lunedì 27 luglio 2009

L’ossimoro dell’onestà intellettuale allo specchio di Google

Il regno dei ragni rema contro: Google ha sbattuto il sito in fondo al suo indice, all’improvviso, e senza apparente motivo dopo averlo innalzato, gradatamente, e mano a mano che il sito cresceva e gli accessi aumentavano e i link da altri siti si ramificavano, fino al Gotha della seconda pagina.
Gli accessi al sito ci sono, il lavoro continua a piacermi. Dovrebbe bastarmi.
Fare questo sito è un piacere che la vita e l’età mi lasciano assaporare.
Posso solo ringraziare la vita e l’età e lo faccio: immensamente grata.
E allora? Cos’è questa smania di controllare spesso la posizione del sito su Google e cosa è la frustrazione che provo vedendola scivolare sempre più in fondo?
E cosa era la compiaciuta fierezza che provavo quando, appena un mese fa, assistevo alla scalata del sito lungo le stesse pagine? Vedevo il sito lasciarsi ogni giorno alle spalle i compagni di pagina su Google. Ed era bello.
"Il resto è poesia inutile. Phil Wittacher sorride. - Non è un duello, la vita -, dice. Melissa Dolphin spalanca gli occhi. - Certo che lo è, idiota. Musica."

Fare il sito è una cosa bella. É gratis. Non devi farci soldi né un esame.
É una pietanza che offri su un piatto per chi abbia voglia di assaggiarne e il piacere sta nella ricerca e nella scelta degli ingredienti e nel combinarli insieme per farli cuocere a fuoco dolce.
Poi porti in tavola e offri a chi abbia voglia di assaggiare.
Gli accessi al sito ci sono, il lavoro continua a piacermi.
Dovrebbe bastarmi.
E allora?
Cos’è questa smania di controllare spesso la posizione del sito su Google?
E cosa è la frustrazione che provo
vedendola scivolare sempre più in fondo?
E cosa era la compiaciuta fierezza che provavo quando,
appena un mese fa,
assistevo alla scalata del sito lungo le stesse pagine?
Vedevo il sito lasciarsi ogni giorno alle spalle dei compagni di pagina su Google.
Ed era bello.
"vogliono solo essere vivi, anche i migliori, quelli che costruiscono giustizia, progresso, libertà, futuro, anche per loro è tutta una faccenda di sopravvivenza, vagli più vicino che puoi, se non ci credi, guarda come si muovono, chi hanno intorno, guardali e prova a immaginare cosa sarebbe di loro se per caso un giorno si svegliassero e cambiassero idea, semplicemente, cosa rimarrebbe di loro, prova a estorcergli una risposta una che non sia una istintiva autolegittimazione, vedi se riesci anche una sola volta a sentirli pronunciare la loro idea con lo stupore e l’esitazione di uno che la scopre in quel momento e non con la sicurezza di uno che ti sta mostrando orgoglioso la devastante efficacia dell’arma che impugna, non farti fregare dall’apparente mitezza del tono, dalle parole che scelgono, astutamente miti, stanno lottando, Gould, lottano con i denti per la sopravvivenza, per il cibo, la femmina, la tana, sono animali, e sono i migliori, capisci?, cosa puoi aspettarti di diverso dagli altri, dai piccoli mercenari dell’intelligenza, dalle comparse della grande lotta collettiva, dai piccoli guerrieri vili che sgraffignano detriti di vita ai margini del grande campo di battaglia, commoventi spazzini di salvezze irrisorie"

Se il prof. Kilroy potesse assistere allo spettacolo del mio smarrimento, vomiterebbe commosso.
MT

venerdì 3 luglio 2009

Dove finisce il mare

Agosto 2004. Domenica sera siamo arrivati a Grenen, la punta estrema a nord della Danimarca. C’è una lingua di spiaggia sabbiosa che separa il Baltico dal Mare del Nord.

Abbiamo posteggiato il camper vicino al faro e siamo scesi in spiaggia. Ci siamo incamminati che era l’imbrunire, io un po’ contrariata perché avevamo fatto tardi per il tramonto. Il sole era già entrato nel mare ma il cielo era ancora rosa e l’acqua era argento e rosa di francia e acquamarina, liquidi e mescolati insieme, ma non del tutto fusi.

Ci siamo incammininati verso la punta seguendo il bordo del mare, alla nostra destra, lungo la spiaggia deserta.

Fino a quando il mare è comparso anche di fronte a noi.

Fino a quando la lingua di sabbia si è assottigliata sotto i nostri piedi.

Fino a quando il fiato si è mozzato.

Fino al punto.

Un punto che era sospeso all’incontro dei limiti.

Parlare di bordo o di dove finisce il mare sarebbe riduttivo. Un bordo delimita qualcosa con una linea. Il mare finisce lungo quella linea, che non sai cogliere, che lo separa dalla terra.

Ma quello era un punto.

Il punto.

Il vertice di un triangolo di sabbia. Le onde di due mari che si infrangono le une sulle altre a partire da quel vertice. Le onde non ti arrivano di fronte per battere sulla terra ma arrivano da destra e da sinistra e si incrociano. Il mare finisce nel mare.

Sono tre le linee che convergono in quel punto: la linea della costa alla tua destra, la linea della costa alla tua sinistra, la linea delle onde che si scontrano di fronte a te.

E alla convergenza di quelle linee, ci sei tu.

Lo stupore ti impedisce di pensare.

La bellezza di quello che vedi ti impedisce di guardare.

Sai che, appena la mente e gli occhi prenderanno le redini, penserai e guarderai da un angolo visuale molto baricchiano. Sai che farai riflessioni sulla vita e sulla morte e assapori il rinviare quel momento. Ti godi lo stupore e la bellezza.

E lo stupore e la bellezza si accaniscono. Spunta la luna piena, rossa, dal mare. I bambini vedono una stella cadente.

È possibile tutto questo?

Ti chiedi cosa mai avrai fatto di buono nella tua vita per meritarlo.

Ti chiedi cosa mai ti ha portato in quel posto di cui fino a un mese fa non sapevi l’esistenza, giusto all’imbrunire di una splendida giornata di sole dopo pioggia e nebbia, a quell’ora in cui non si vedono turisti in giro, proprio in una notte di luna piena, nel periodo in cui cadono le stelle.

È troppo.

Cominci a camminare sulla via del ritorno e stupore e bellezza ti seguono. Cammini e ti ritrovi ancora al vertice tra la linea del riflesso della luna sul mare e la linea del riflesso della luce del faro. Tu cammini e le due strisce di luce convergono verso di te.

Appena arrivata in camper ho programmato la sveglia per le cinque meno un quarto della mattina dopo. Qui in questo periodo c’è già luce a quell’ora. Non volevo perdere l’uscita del sole e volevo essere ancora lì, nel punto, da sola, con la mente e gli occhi, stavolta.

Lunedì mattina, ancora una splendida giornata di cielo limpido. Rifaccio la strada e stavolta ho la videocamera con me e tutto l’apparato di possibili considerazioni esistenziali carico.

Argento, rosa di francia e acquamarina, liquidi e mescolati insieme ma non del tutto fusi. Gabbiani.

Luna piena che cala alle mie spalle, accanto al faro.

Mare a destra, poi mare di fronte e la punta.

Ci sono delle persone, meno di una decina, e un cane, già lì per vedere l’alba.

Io arrivo, il sole sorge, rosso. Meraviglia: sorge quasi sulla linea delle onde che si infrangono le une sulle altre. Tutti fotografano o filmano. Pure io.

Poi vanno via tutti e io mi siedo sul quel triangolo di sabbia, a prua della Terra. Il sole di fronte a me è ancora rosso. Il mare è oro e acquamarina, liquidi e mescolati insieme ma non del tutto fusi.

Il riflesso dorato del sole è una linea che quasi coincide con quella delle onde dei due mari che si scontrano. Come può la casualità degli eventi gestire una regia così perfetta in ogni particolare? Così deve essere nata la vita sulla terra dal brodo primordiale, per un convergere di circostanze casuali in una regia perfetta.

La mia amica Laura mi ha scritto in un sms che AB c’è stato al punto.

Per i suoi lettori, trovarsi lì, quando mente e occhi riescono a riprendere il sopravvento su stupore e bellezza, non può non comportare un doppio effetto di ritorno: da un lato quei testi che ci portiamo dentro ritornano arricchiti dall’esperienza che porta nuovi elementi interpretativi, ma dall’altro lato quell’esperienza di vita, per essere decodificata, non può più prescindere da quei testi.

Leggiamo libri, film e, ahimè, esperienze, solo grazie ai libri, film e alle esperienze che abbiamo già letti. Costruiamo testi grazie ai testi che possediamo. Decodifichiamo in base a quello che già sappiamo.

Comunque io ero lì, un lunedì mattina, seduta a prua della Terra, a chiedermi cosa finiva in quel punto, se la Terra o il Mare. A decodificare simboli.

Io a prua della Terra, il mio elemento, con i piedi affondati nella sabbia umida come radici.

La madre terra, nido e tana, e sentieri da percorrere fino ad arrivare al bordo.

E poi il Mare.

La Terra, vita che comincia e finisce. Il Mare, infinito che l’avvolge.

O guardi o giochi. E normalmente giochi.

Direbbe Shatzy:

«Con la mente altrove, lì a schiacciare pulsanti blu o rossi, cercando di indovinare. Un gioco d’abilità. Te lo fanno fare per distrarti. Dato che funziona, perché mai non ci dovresti stare?»

Normalmente giochi.

A volte guardi, sulla costa, e cerchi di capire dove finisce la terra e comincia il mare.

Cerchi di capire il senso di quel bordo. E a volte ti sembra di riuscirci, per un istante, e pensi che il senso sia nel Mare.

La Terra finisce, esausta di strade percorse o mai imboccate. Esausta di scelte fatte ad ogni bivio.

Sul bordo non ci sono più sentieri da scegliere, mele da cogliere, cattedrali da costruire. C’è una linea che dice: basta. E il Mare. Dice la canzone: Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione, e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione, perché più in là non si poteva conquistare niente.

A volte ti sembra di capire che il senso di tutto sia proprio in quel “basta”, nella pace di quel mare dove la vita è nata e dove la terra finisce. A volte ti sembra di potere accettare che il fine sia proprio la fine e ti da pace.

A volte, sulla costa.

Su quella punta no.

Lì è diverso e tutto ti si confonde.

Lì il bordo scompare e tutte le linee convergono verso il punto.

La Terra fatica lì, si fa prua. Non si abbandona al mare ma lo taglia. E il Mare, in quel punto, perde il suo senso di infinito. Le onde non arrivano più a prendersi la Terra, ma si scontrano tra loro in una fatica inutile. E allora te la ridi.

Te la ridi dell’inutilità del Mare.

Della paura che ti fa e di tutte le storie che ci ricami sopra, per accettarlo e sconfiggerne la paura.

Lì, al punto, il senso non è più neanche nel Mare.

Come non può essere nelle tane che hai scavato, nelle strade che hai percorso, nelle cattedrali che hai costruite. Tutta quella Terra finisce in quel punto, ma in quel punto finisce anche tutto quel mare, nella assoluta vacuità delle onde contro le onde.

Lì, non c’è più un senso al di fuori di quel punto stesso.

E quel punto sei tu, in quell’istante in cui sei il centro dell’universo.

Tu sei il punto e l’istante in cui convergono il mare e la terra per acquistare un senso.

E te la ridi.

Non per niente, tutti, lì, si fanno fotografare su quel vertice di terra, in piedi, le spalle alle onde che si incrociano, con un enorme sorriso in faccia e con le braccia aperte, al centro di tutte le direzioni.

Si sentono il punto.

E se la ridono.

Li ho guardati, più tardi, quando sono tornata alla punta con la famiglia. Decine e decine di turisti che affollavano quel triangolo di terra. Arrivavano con un pulmino trainato sulla sabbia da un grosso trattore, camminavano fino al punto, ridevano, si facevano fotografare con i piedi in acqua proprio al vertice dell’angolo, spalle al mare e braccia aperte, al centro dell’universo dei significati.

Ma soprattutto ridevano.