martedì 30 giugno 2009

Il Salone della Casa Ideale tra le case danesi

Luglio 2004. Siamo sbarcati in Danimarca lunedì sera alle dieci, dopo avere traghettato da Puttgarden, in Germania. Ci siamo fermati a campeggiare in un paesino, Maribo, e già attraversandolo, mi ha dato, netta, una sensazione che posso esprimere ai lettori di City usando poche parole e avendo nel contempo la certezza di arrivare a tutti nello stesso modo: Il Salone della Casa Ideale.
Immaginate un paesino costruito con i lego, ma con quelli della mia generazione, senza tutti quei pezzi speciali già pronti e magari pure stampati con i particolari di quello che devono costruire. Immaginate mattoni rigorosamente rossi, tegole verdi, porte e finestre a riquadri bianchi, qualche ringhierina e qualche pezzo ad arco, ma pochi. A quei mattoncini tutti uguali dovevi dirlo tu cosa costruire. E costruivi, però, immancabilmente, uno di questi paesini danesi. Loro, i mattoncini, ce l’avevano nel DNA.
Immaginate che, alle dieci di sera passate di un lunedì di luglio, buio fuori e luci accese dentro le case dei lego, tutte quelle finestre con grandi vetri non abbiano scuri serrande persiane veneziane tapparelle e, nell’ipotesi in cui possano avere delle tende, siano tenute aperte.
«La cosa incredibile è che costruivano delle vere e proprie case, e tu giravi, come in un paese assurdo, con le stradine e i lampioni agli angoli, e le case erano tutte diverse, e molto pulite, nuove. Era tutto molto a posto, le tendine, il vialetto, c’erano anche i giardini, era un mondo da sogno. Potevi pensare che era tutto di cartone e invece lo facevano con mattoni veri, anche i fiori erano veri, tutto era vero, ci avresti potuto abitare, potevi salire le scale, aprire le porte, erano case vere. È difficile da spiegare ma tu camminavi lì in mezzo e sentivi una cosa molto strana nella testa, come una sorta di meraviglia dolorosa. Voglio dire, quelle erano case vere, e tutto, ma poi, in realtà, le case vere erano diverse.
[…]
Erano vere, ma non erano vere: era questo, che ti fregava.
[…]
ogni tanto le animavano, quelle case, cioè ci mettevano della gente dentro a far finta di vivere lì, che ne so, un signore seduto in salotto a leggere il giornale e fumare la pipa, e perfino dei bambini, in pigiama, a letto, nei letti a castello, una meraviglia, noi non li avevamo mai visti i letti a castello. Era sempre per ottenere quell’effetto di ideale, capisce? Anche loro, i personaggi, erano ideali.
[…]
Non so se ha presente, colonnello. È un po’ come quando si guardano i trenini elettrici, soprattutto se c’è il plastico, con la stazione e le gallerie, le mucche nei prati e i lampioncini accesi di fianco ai passaggi a livello. Succede anche lì. Oppure quando si vede nei cartoni animati la casa dei topolini, con le scatole di fiammiferi al posto dei letti, e il quadro del nonno topo alla parete, la libreria, e un cucchiaio che fa da sedia a dondolo.
[…]
D’altronde, non so se l’ha notato anche lei, in genere, se c’è qualcosa che ti colpisce come una rivelazione, puoi scommetterci che è una cosa fasulla, voglio dire, una cosa che non è vera. Prenda l’esempio del trenino. Lei può stare a guardare per ore una stazione vera e non succede niente, poi basta un’occhiata a un trenino e, tac, si scatena tutto quel ben di dio. Non ha senso, ma è dannatamente così, e alle volte più è idiota, la cosa che ti becca, più ci rimani appeso, con la meraviglia, come se ci fosse bisogno di una certa dose di impostura, di deliberata impostura, per ottenere tutto quello, come se tutto avesse bisogno di essere falso, almeno per un po’, per riuscire, dopo, a diventare qualcosa come una rivelazione.»
Ora, la riflessione di questi primi due giorni danesi (che anche gli altri paesini che ho visto dopo Maribo sono di quel tipo) è:
quelle che vedo io, qui, non “sembrano” ma “sono” case vere. Le piantine in fila all’interno dei davanzali alternate con vasetti gattini o riccetti o anatre di porcellana, “sono” vere. E la gente che vedo muoversi dentro i soggiorni, mangiare portando lentamente la forchetta alla bocca alla luce del lume posto al centro della tavola, “è” vera.
Eppure,
la meraviglia che provi
deriva, anche qui come sempre,
dal fatto
che tutto quel mondo “vero”
sembra finto.
«La vita vera non parla mai», dice Shatzy. Qui ti parla perché ti sembra finta.
I bambini hanno detto, a turno, in momenti diversi: «zia, sembrano le case delle bambole», «mi sembra di essermi rimpicciolita ed entrata nel paese delle bambole», «mamma, perché qua fanno le case che sembrano finte?»
Poi la realtà spunta fuori dal bagliore di un televisore acceso, quello sì che è rassicurantemente vero.
Sarà per questo che in City il televisore è bandito e, l’unico che c’è non funziona e non si capisce neanche se sia di legno che sembra plastica o di plastica che sembra legno.

lunedì 29 giugno 2009

Viaggi nel dentro del mondo e nel mondo di fuori

Tra qualche giorno partirò con la roulotte gialla, che in realtà, nella vita vera, quella che non parla mai, è un camper, banalmente bianco con un po’ di grigio, ma che il destino ha dotato di un bordino sottile, ineluttabilmente giallo, che separa la parte bianca da quella grigia e che ha inevitabilmente richiesto delle tendine gialle alle finestre.
Il camper giallo di MT viaggia sulla linea di confine i tra mondi mentali e il mondo fuori, dove scorre la vita vera, quella che non parla mai.
Dice Shatzy:
«Anche i libri, o i film, è la stessa cosa. Più fasulli di così si muore, e se va a vedere chi ci sta dietro può scommetterci che troverà solo solenni figli di puttana, ma intanto ci vedi dentro cose che ad andare in giro per la strada te le sogni, e nella vita vera non le troverai mai. La vita vera non parla mai. È solo un gioco d’abilità, roba che vinci o perdi, te lo fanno fare per distrarti, così non pensi».
Il camper giallo di MT non sta fermo in giardino come la roulotte di Shatzy, ma viaggia dentro il mondo che è fuori e che, a sua volta e nello stesso tempo, scava il suo viaggio all’interno dei mondi che sono dentro MT.
Partirò tra qualche giorno e sarà un viaggio piccolo e vicino dal quale mi aspetto belle cartoline e poco altro.
Ci sono stati altri viaggi, lunghi e lontano, dentro i quali ho portato con me quello sguardo che può essere il centro intorno al quale ruota questo blog, a volerlo proprio cercare un centro.
Viaggiavo e scrivevo e raccontavo, sulla mailinglist di Oceanomare.com, quello che leggevo nei paesaggi che viaggiavo. Scrivere era uno dei modi per continuare a tenere in mano alcuni dei fili di Arianna che mi legavano al mio rientro.
Scrivere è una sporcheria dolcissima. Come leggere.
Scrive Baricco in Castelli di rabbia:
«leggere è una sporcheria dolcissima
[…]
quei treni che rigavano avanti e indietro il mondo come ferite fumanti si portavano dentro anche la solitudine impagabile di quel segreto: l'arte di leggere.
Tutti quei libri aperti, infiniti libri aperti, come finestrelle aperte sul dentro del mondo, seminate su un proiettile che offriva allo sguardo, solo si avesse avuto il coraggio di alzarlo, lo sfavillante spettacolo del mondo di fuori.
Il dentro del mondo e il mondo di fuori».
Scrivere è una sporcheria dolcissima. Come leggere. E forse anche lo sguardo del viaggiatore sul proprio viaggio lo è.
Scrive Saramago nella presentazione di Viaggio in Portogallo:
«Questo Viaggio in Portogallo è una storia.
Storia di un viaggiatore all'interno del viaggio da lui compiuto, storia di un viaggio che in se stesso ha trasportato un viaggiatore, storia di un viaggio e di un viaggiatore riuniti nella fusione ricercata di colui che vede e di quel che è visto».
Tutto questo per dire che pubblicherò in questo blog alcune delle cose che ho scritto durante i viaggi, lunghi, di qualche anno fa, specchiando dentro quelle parole il riflesso dei miei passi dentro City.

sabato 20 giugno 2009

Ho passato tanto tempo dentro City

Ho passato tanto tempo dentro City e tanto altro anche fuori, dove si fanno figli, ci si innamora, ci si guadagna da vivere, si mangia insieme agli amici e tutto questo tempo è passato senza dolore. Commozione e nausea, quelle sì, ogni tanto, come per il prof. Kilroy.
Ho passato tanto tempo anche dentro la mailing list di quell’oceanomare che si muove intorno a Baricco e intorno a se stesso e alle sue onde di lettura di libri e di vita.
Strano posto la ml, una veranda di quelle del prof. Bandini, a metà strada tra un libro, un diario e il bar della piazza.
Mi conoscono lì dentro.
Hanno vissuto il sito e contribuito alla sua costruzione che avviene anche attraverso quello che transita in ml.
Qualche mese fa scrivevo su City, partendo dall’osservazione che il QI di Gould è pari a 108, cioè decisamente nella media.
Che non ci sia alcun genio in City e quella di Gould e Shatzy sia tutta una storia inventata da un matto? E da chi? Gould, sua madre, tutti e due? Torna sempre il dubbio che Shatzy sia un personaggio immaginario, nato da una telefonata e da un tacco a spillo sul marciapiede, e che anche i professori lo siano.
Io non ho ancora trovato una mappa di City. C'è sempre un pezzo che manca. E alla fine mi fa comodo pensare che sia giusto così. Tutto fatto a posta.
Chissà se Baricco le ha tutte le tessere del mosaico di City o se ha inventato proprio un mosaico con dei pezzi mancanti. Propendo per l'ultima ipotesi.
Per un Baricco che si siede al pc e fa: "facciamo che sembri che Gould sia un custode di bagni che vive tutto il giorno nella merda e si inventa la storia di un bambino genio in fuga dal mondo il quale si inventa la storia di un pugile, di due amici immaginari, di 27 professori e di una governante la quale si inventa un western. Facciamo una cosa tipo remake di Castelli di rabbia dove la ragazza sul transatlantico con tutto il suo schifo addosso si inventava una città: Quinnipak".
Poi, sempre Baricco, si fa un giro per casa, torna al pc e fa: "però facciamo pure che invece sia Ruth, la madre pazza, a ricostruire la storia del suo bambino e a confondere un po' le cose perché, si sa, lei è pazza e ricordi e immaginario si confondono mentre li racconta a se stessa. Così ogni cosa va a posto perché tutto è vero e tutto è inventato e nessuno può distinguere il confine".
Il massimo poi è quando Baricco si appoggia alla spalliera della sedia, scivolandosi un po' e allungando le gambe sotto la scrivania, stiracchiandosi leggermente, e fa: "possiamo pure incrociare i racconti e fare che Gould e sua madre ... Si capivano, ridevano, avevano tutte delle storie loro. Sembrava un gioco ".
E io?
Dovrei averne abbastanza per abbandonare il lavoro del sito e invece sono ancora qui a rigirare tra le mani il cubo di Rubik, inutile al mondo e alle mie dita, dice la canzone, bollato per sempre truffatore imbroglione, dottor professor truffatore imbroglione.
Mi conoscono in ml.
E sanno come difendersi. Scrivono pure gli avvisi per i nuovi iscritti.
Avviso chiunque abbia avuto l'ardire di iscriversi da poco e che si trova un po' disorientato di fronte ai labirintici messaggi dell'archivista MT, che la suddetta altro non è che un personaggio di City scappato alle pagine del libro, o più probabilmente liberato dallo stesso autore.
O forse non è nemmeno un personaggio di City, probabilmente ne è un quartiere, o un sobborgo, di quelli nati per l'insediamento casuale di qualche immigrato che pian piano diventano essi stessi prima periferia, e poi quartieri e vengono inglobati nella metropoli.
E io quando sbircio la casella di posta oceanica e trovo un messaggio di MT mi sento come uno che torna, dopo anni, nella sua città.
E il bello di tutto questo è che a MT piace.
Fine settimana in campagna, mare sullo sfondo, canto degli uccelli in sottofondo, progetti di lavorare al sito e all'itinerario del prossimo viaggio in roulotte gialla.
- Ce ne andiamo a vedere il mondo, Gould. Basta con queste pippe.

MT

sabato 13 giugno 2009

La presentazione-specchio di www.labcity.it

Il sito www.labcity.it ha una pagina dedicata alla presentazione del lavoro.
La Presentazione, che sarà mai?
La Presentazione è stata una gran fatica per me e per quelli che mi stanno intorno e subiscono i racconti dei pensieri e degli stati d’animo che, ormai da mesi o forse da anni, gravitano intorno al sito. Ci sono quelli che subiscono, nei dintorni dell’alba, il riversarsi sul loro risveglio delle elucubrazioni antelucane di MT e ci sono quelli che subiscono, nei dintorni della pausa pranzo, il riversarsi sul loro abbiocco postprandiale degli aggiornamenti sul sito di MT.
Ai tempi della stesura della Presentazione del sito, sul finire dell’estate dello scorso anno, tutti quelli che subiscono hanno dovuto leggere e rileggere, ad alta voce, la Presentazione per settimane perché MT doveva sentirne il suono.
Settimane.
La Presentazione.
Adesso sta lì, sul sito.
Non la leggo da mesi.
Chissà come suona.
Alla fine della Presentazione c’è scritto:
A Kublai Kan, imperatore di città invisibili, che domanda se, tornato a ponente, racconterà alla sua gente gli stessi racconti, Marco Polo, viaggiatore di città invisibili, risponde : «chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio».
Dentro ogni viaggio ci sono tanti viaggi e ci sono racconti di viaggio per ogni orecchio e, dentro ogni città in cui viaggiamo, si moltiplicano le nostre città invisibili.
Questo sito è l’approdo di un lungo viaggio, dentro e intorno a City. Non aspira a raccontare il viaggio di Baricco, di per sé insondabile come ogni viaggio di ogni autore nell’intimo del proprio testo, e neanche a raccontare delle città invisibili incontrate, nelle derive del lungo viaggio da lettore, tra gli specchi del testo. Si propone piuttosto come punto di convergenza di diversi possibili viaggi.
Racconta di un viaggio, all’interno di City, orientato dalla costante verifica dell’aderenza delle proprie rotte a percorsi che il testo giustifichi, sia in relazione alla sua coerenza interna, sia in relazione alle coordinate della poetica di Baricco.
Offre la possibilità di viaggi attraverso City, nei suoi dintorni, e nelle sue zone di espansione. In ogni caso, al centro del sito è posto il testo, come fulcro dei diversi materiali che ruotano intorno ad esso e come nodo passante delle traiettorie, originate e dirette altrove, che lo attraversano.

Questo blog racconta di derive di viaggio, di specchi, di città invisibili che, come nelle ultime carte dell’atlante di Kublai Kan, si diluiscono in reticoli senza principio né fine. Il centro, semplicemente, non c’è. E, se ci fosse, non sarebbe il testo di City ma la lettura e le riletture di MT tra i sentieri del testo, del sito, della vita.

Ho letto City mentre ero incinta e avevo la varicella. Non andavo al lavoro e avevo tempo e spazio di disorientamento e una certa pesantezza addosso.
L'ho letto con questo disagio e ha aggiunto disorientamento al disorientamento e pesantezza alla pesantezza.
Soprattutto mi ha lasciato quella sensazione di incompiuto, di pezzi mancanti.
E il bisogno di ricostruire il puzzle.
L'occasione per la rilettura è arrivata con la tesi su ipertestualità e letteratura.
Rileggere in profondità City è scoprirsi Phil Wittacher. Devi fare il suo percorso e, a un certo punto, ti accorgi che City parla di te che leggi e di come stai leggendo e ti accorgi che stai guardando negli occhi quel gran figlio di puttana di Arne Dolphin e i suoi indiani, le sue carte da poker e i suoi orologi.
Cominci col dire “compongo l'immagine smontando e rimontando il puzzle”.
Lo monti.
Poi ti accorgi che il puzzle è fatto di cubi e le immagini che puoi comporre con le diverse facce sono più di una, come nel gioco per bambini.
Intuisci però che, a differenza del gioco, qui puoi montare la facce in modo che le immagini si compongano simultaneamente.
Un cubo di rubik.
E giri e rigiri fino a che ti pare di aver composto le immagini sulle sei facce del cubo.
Ma qui succede che guardi il tuo cubo di rubik e vedi sei facce:
Gould e Shatzy | Il western | La boxe | Il fumetto Ballon Mac | Le lezioni dei professori di Gould | La collezione degli episodi di delirio metropolitano al fast food, al ristorante cinese, dal barbiere, davanti all'università.
Vedi anche che le facce hanno una luce particolare, che proviene da un angolo visuale dislocato, in cui riconosci lo sguardo anomalo di Ruth.
Immagini di dover provare una sensazione di conquista. Per un attimo, forse, la provi anche.
E poi capisci che sei in trappola e non ne esci.
Perché ti accorgi che stai pensando che ogni cubo che compone una delle sei facce del cubo di rubik ha sei facce e che le facce interne dei cubi che formano le facciate del cubo principale potrebbero formare altre immagini. E pensi che ci sono cubi, all'interno che non vedi affatto e intuisci che, continuando a girare, ruoti intorno a una faccia che sta spezzettata lì dentro ed è la tua.
La tua faccia di lettore.
I cubi di City sono diversi, uno per ogni lettore.
Immagini di dover provare una sensazione di sollievo. Per un attimo, forse, la provi anche.
E poi capisci che succede la stessa cosa con le facce della tua vita, con tutto quello che leggi in quello che fai e nelle persone che frequenti e nei luoghi che vedi.
E senti che City parla di te anche in altri sensi.
E non importa più sapere se guardi la tua vita attraverso City o se guardi City attraverso la tua vita. Perché sai che costruiamo tutti vite che sono testi.
E sorridi, con una certa folle benevolenza, anche di questo.

Si legge, sempre ne Le città invisibili di Calvino:
L’atlante raffigura anche città di cui né Marco né i geografi sanno se ci sono e dove sono, ma che non potevano mancare tra le forme di città possibili […] Anche per queste Marco dice un nome, non importa quale, e accenna a un itinerario per andarci. Si sa che i nomi dei luoghi cambiano tante volte quante sono le lingue forestiere; e che ogni luogo può essere raggiunto da altri luoghi, per le strade e le rotte più diverse, da chi cavalca carreggia rema vola. – Mi sembra che tu riconosci meglio le città sull’atlante che a visitarle di persona, – dice a Marco l’imperatore richiudendo il libro di scatto. E Polo: – Viaggiando ci s’accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante custodisce intatte le differenze: quell’assortimento di qualità che sono come le lettere del nome.
E si legge, in Questa storia di Baricco:
Morire e dare nomi - non si fa altro di sincero, probabilmente, per il tutto il tempo che si campa.


MT