venerdì 3 luglio 2009

Dove finisce il mare

Agosto 2004. Domenica sera siamo arrivati a Grenen, la punta estrema a nord della Danimarca. C’è una lingua di spiaggia sabbiosa che separa il Baltico dal Mare del Nord.

Abbiamo posteggiato il camper vicino al faro e siamo scesi in spiaggia. Ci siamo incamminati che era l’imbrunire, io un po’ contrariata perché avevamo fatto tardi per il tramonto. Il sole era già entrato nel mare ma il cielo era ancora rosa e l’acqua era argento e rosa di francia e acquamarina, liquidi e mescolati insieme, ma non del tutto fusi.

Ci siamo incammininati verso la punta seguendo il bordo del mare, alla nostra destra, lungo la spiaggia deserta.

Fino a quando il mare è comparso anche di fronte a noi.

Fino a quando la lingua di sabbia si è assottigliata sotto i nostri piedi.

Fino a quando il fiato si è mozzato.

Fino al punto.

Un punto che era sospeso all’incontro dei limiti.

Parlare di bordo o di dove finisce il mare sarebbe riduttivo. Un bordo delimita qualcosa con una linea. Il mare finisce lungo quella linea, che non sai cogliere, che lo separa dalla terra.

Ma quello era un punto.

Il punto.

Il vertice di un triangolo di sabbia. Le onde di due mari che si infrangono le une sulle altre a partire da quel vertice. Le onde non ti arrivano di fronte per battere sulla terra ma arrivano da destra e da sinistra e si incrociano. Il mare finisce nel mare.

Sono tre le linee che convergono in quel punto: la linea della costa alla tua destra, la linea della costa alla tua sinistra, la linea delle onde che si scontrano di fronte a te.

E alla convergenza di quelle linee, ci sei tu.

Lo stupore ti impedisce di pensare.

La bellezza di quello che vedi ti impedisce di guardare.

Sai che, appena la mente e gli occhi prenderanno le redini, penserai e guarderai da un angolo visuale molto baricchiano. Sai che farai riflessioni sulla vita e sulla morte e assapori il rinviare quel momento. Ti godi lo stupore e la bellezza.

E lo stupore e la bellezza si accaniscono. Spunta la luna piena, rossa, dal mare. I bambini vedono una stella cadente.

È possibile tutto questo?

Ti chiedi cosa mai avrai fatto di buono nella tua vita per meritarlo.

Ti chiedi cosa mai ti ha portato in quel posto di cui fino a un mese fa non sapevi l’esistenza, giusto all’imbrunire di una splendida giornata di sole dopo pioggia e nebbia, a quell’ora in cui non si vedono turisti in giro, proprio in una notte di luna piena, nel periodo in cui cadono le stelle.

È troppo.

Cominci a camminare sulla via del ritorno e stupore e bellezza ti seguono. Cammini e ti ritrovi ancora al vertice tra la linea del riflesso della luna sul mare e la linea del riflesso della luce del faro. Tu cammini e le due strisce di luce convergono verso di te.

Appena arrivata in camper ho programmato la sveglia per le cinque meno un quarto della mattina dopo. Qui in questo periodo c’è già luce a quell’ora. Non volevo perdere l’uscita del sole e volevo essere ancora lì, nel punto, da sola, con la mente e gli occhi, stavolta.

Lunedì mattina, ancora una splendida giornata di cielo limpido. Rifaccio la strada e stavolta ho la videocamera con me e tutto l’apparato di possibili considerazioni esistenziali carico.

Argento, rosa di francia e acquamarina, liquidi e mescolati insieme ma non del tutto fusi. Gabbiani.

Luna piena che cala alle mie spalle, accanto al faro.

Mare a destra, poi mare di fronte e la punta.

Ci sono delle persone, meno di una decina, e un cane, già lì per vedere l’alba.

Io arrivo, il sole sorge, rosso. Meraviglia: sorge quasi sulla linea delle onde che si infrangono le une sulle altre. Tutti fotografano o filmano. Pure io.

Poi vanno via tutti e io mi siedo sul quel triangolo di sabbia, a prua della Terra. Il sole di fronte a me è ancora rosso. Il mare è oro e acquamarina, liquidi e mescolati insieme ma non del tutto fusi.

Il riflesso dorato del sole è una linea che quasi coincide con quella delle onde dei due mari che si scontrano. Come può la casualità degli eventi gestire una regia così perfetta in ogni particolare? Così deve essere nata la vita sulla terra dal brodo primordiale, per un convergere di circostanze casuali in una regia perfetta.

La mia amica Laura mi ha scritto in un sms che AB c’è stato al punto.

Per i suoi lettori, trovarsi lì, quando mente e occhi riescono a riprendere il sopravvento su stupore e bellezza, non può non comportare un doppio effetto di ritorno: da un lato quei testi che ci portiamo dentro ritornano arricchiti dall’esperienza che porta nuovi elementi interpretativi, ma dall’altro lato quell’esperienza di vita, per essere decodificata, non può più prescindere da quei testi.

Leggiamo libri, film e, ahimè, esperienze, solo grazie ai libri, film e alle esperienze che abbiamo già letti. Costruiamo testi grazie ai testi che possediamo. Decodifichiamo in base a quello che già sappiamo.

Comunque io ero lì, un lunedì mattina, seduta a prua della Terra, a chiedermi cosa finiva in quel punto, se la Terra o il Mare. A decodificare simboli.

Io a prua della Terra, il mio elemento, con i piedi affondati nella sabbia umida come radici.

La madre terra, nido e tana, e sentieri da percorrere fino ad arrivare al bordo.

E poi il Mare.

La Terra, vita che comincia e finisce. Il Mare, infinito che l’avvolge.

O guardi o giochi. E normalmente giochi.

Direbbe Shatzy:

«Con la mente altrove, lì a schiacciare pulsanti blu o rossi, cercando di indovinare. Un gioco d’abilità. Te lo fanno fare per distrarti. Dato che funziona, perché mai non ci dovresti stare?»

Normalmente giochi.

A volte guardi, sulla costa, e cerchi di capire dove finisce la terra e comincia il mare.

Cerchi di capire il senso di quel bordo. E a volte ti sembra di riuscirci, per un istante, e pensi che il senso sia nel Mare.

La Terra finisce, esausta di strade percorse o mai imboccate. Esausta di scelte fatte ad ogni bivio.

Sul bordo non ci sono più sentieri da scegliere, mele da cogliere, cattedrali da costruire. C’è una linea che dice: basta. E il Mare. Dice la canzone: Ed il più grande conquistò nazione dopo nazione, e quando fu di fronte al mare si sentì un coglione, perché più in là non si poteva conquistare niente.

A volte ti sembra di capire che il senso di tutto sia proprio in quel “basta”, nella pace di quel mare dove la vita è nata e dove la terra finisce. A volte ti sembra di potere accettare che il fine sia proprio la fine e ti da pace.

A volte, sulla costa.

Su quella punta no.

Lì è diverso e tutto ti si confonde.

Lì il bordo scompare e tutte le linee convergono verso il punto.

La Terra fatica lì, si fa prua. Non si abbandona al mare ma lo taglia. E il Mare, in quel punto, perde il suo senso di infinito. Le onde non arrivano più a prendersi la Terra, ma si scontrano tra loro in una fatica inutile. E allora te la ridi.

Te la ridi dell’inutilità del Mare.

Della paura che ti fa e di tutte le storie che ci ricami sopra, per accettarlo e sconfiggerne la paura.

Lì, al punto, il senso non è più neanche nel Mare.

Come non può essere nelle tane che hai scavato, nelle strade che hai percorso, nelle cattedrali che hai costruite. Tutta quella Terra finisce in quel punto, ma in quel punto finisce anche tutto quel mare, nella assoluta vacuità delle onde contro le onde.

Lì, non c’è più un senso al di fuori di quel punto stesso.

E quel punto sei tu, in quell’istante in cui sei il centro dell’universo.

Tu sei il punto e l’istante in cui convergono il mare e la terra per acquistare un senso.

E te la ridi.

Non per niente, tutti, lì, si fanno fotografare su quel vertice di terra, in piedi, le spalle alle onde che si incrociano, con un enorme sorriso in faccia e con le braccia aperte, al centro di tutte le direzioni.

Si sentono il punto.

E se la ridono.

Li ho guardati, più tardi, quando sono tornata alla punta con la famiglia. Decine e decine di turisti che affollavano quel triangolo di terra. Arrivavano con un pulmino trainato sulla sabbia da un grosso trattore, camminavano fino al punto, ridevano, si facevano fotografare con i piedi in acqua proprio al vertice dell’angolo, spalle al mare e braccia aperte, al centro dell’universo dei significati.

Ma soprattutto ridevano.

1 commento:

  1. Mi ricordo vagamente di un tale incrociato dentro "Oceano mare".
    Come al solito mi affido a Google; eccolo, il "professore Bartleboom": cercava di stabilire dove finisse il mare.
    Quando ho letto del suo studio iniziai a (!?!) meditare. Pensavo che le "cose" non finissero od iniziassero in un punto preciso. E lo penso tuttora: tutto è molto fluido. Ci si lascia dietro sempre qualcosa, si mette davanti sempre qualcosa. Come il mare. Come il sole che entra nel mare ma il cielo è ancora rosa e l’acqua è argento e rosa di francia e acquamarina, liquidi e mescolati insieme, ma non del tutto fusi.
    Proprio così!
    Bello. Complimenti.
    PS: del peripatetico circolare te ne parlerò di presenza, delle ascelle dello sciupa invece mi asterrò, ti confermo il disgusto, anch'io non ci ho dormito la notte!

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