venerdì 4 marzo 2011

In giro con la mappa delle terre dei barbari

È sempre più faticoso decidere di dare una mossa alla costruzione del sito www.labcity.it, che sonnecchia in fase di stanca.
Ogni tanto mi chiedo se ho ancora voglia di andare avanti con questo lavoro. Il tempo passa i bimbi crescono, le mamme imbiancano e, in quanto ai lavori faticosi, siamo barbari e per i barbari, dice Baricco, «il massimo della concentrazione su uno spigolo del mondo ottiene di chiarirlo, ma ritagliandolo via da tutto il resto: in definitiva, un risultato mediocre».
Non rinuncio, ancora, ma procedo svogliatamente.

Da molti mesi non lavoro dentro il testo di City e mi mantengo nei suoi dintorni. Continuo ad aggiungere materiali che ruotano intorno a City e a rimandare il momento in cui affronterò l’interno delle storie, guardando da vicino il funzionamento dei meccanismi che le fanno vivere. E dire che ho sempre pensato all’analisi critica di City come al cuore del lavoro: un centro gravitazionale per tutti gli altri testi raccolti e organizzati nel sito.
Certo, Baricco, ne I barbari, parla di libri come segmenti di una sequenza più ampia che ha origine e prosegue altrove. Dice anche che «forse uno degli stilemi esistenziali dei barbari è proprio questo schema: un centro fondativo che motiva il sistema e una periferia che magnetizza il senso», sul modello dell’hamburger alla McDonald’s. Dovrei dormire sonni tranquilli, quindi, e godere della perfetta coincidenza di teoria e prassi.
In più, da un po’ di tempo, nel lavorare al sito, prende corpo un’altra sensazione prettamente barbara: una sorta di timore ad avvicinarsi troppo al centro. Come se City, lì al centro del sito,  fosse diventato una sorta di buco nero capace di risucchiare ogni energia nel vortice della profondità. Sindrome da barbari, paro paro.
La conseguenza di tutto questo “surfing barbaro” per i dintorni di un libro come una città è che vado dimenticando quello che sapevo della città, dei suoi monumenti e della sua storia: mi dimentico del testo e mi disperdo tra i commenti dei lettori e della stampa, tra blog  & siti  su Baricco, gruppi Facebook, tesi di laurea e saggistica di piccolo cabotaggio (ché i critici di lungo corso evitano Baricco come il triangolo delle Bermuda, per fortuna, ma noi siamo gente che riesce a disperdersi anche su rotte mai tracciate, scrivendo pagine e pagine pure sul silenzio dei critici blasonati).
Potrei continuare a girellare intorno al centro del lavoro per anni, filosofandoci pure sopra. Nella sezione relativa agli echi del testo c’è ancora da gingillarsi con le immagini delle copertine delle edizioni straniere e con l’inserimento di qualche brano in inglese, francese, tedesco, spagnolo e, grasso che cola, finanche in catalano. In giapponese no, ché non saprei neanche riconoscere il brano, il suo inizio e la sua fine.
C’è anche da giocare con la sezione relativa al paratesto.
E c’è da affrontare quell’altro buco nero che è il panorama culturale sullo sfondo di un libro come City. Già a stare sul bordo dell’idea, il ronzio di tutto quel rumore di voci che ruotano vorticosamente intorno a se stesse, dibattendosi tra postmoderno e ipertestualità, tra pensiero debole, nomade, decostruito, in una palude di punti di riferimento laschi, dà la vertigine.
Ce n’è da divagare, eccome.
In tutto questo, City diventa sempre più “il mio lavoro su City” e sempre meno un romanzo che ho letto in un tempo ormai lontano.
Come era City quando l’ho letto, poco dopo l’uscita in libreria, tra maggio e giugno del 1999?
Mi era piaciuto?
Ero a casa con la varicella, mentre lo leggevo. Mancavano un paio di mesi alla nascita del mio secondo figlio  e City non è un libro piacevole. Ricordo un certo disagio.
Non credo che avessi pensato subito che sarebbe stato un testo su cui avrei speso anni di quella parte della mia vita – la meno sana ma tutto sommato anche quella percentualmente meno rilevante – dedicata a cercare un senso nella vita piuttosto che a viverla.
Adesso, non solo non ricordo più cosa sia stato City per me, quando l’ho letto, ma comincio anche a dimenticare cosa City fosse diventato nelle letture e riletture successive, nelle pratiche di smontaggio e rimontaggio, nelle ipotesi e tesi poste alla base del lavoro di costruzione del sito.
Meglio così.
Un giorno rileggerò City, prima di tuffarmi in elucubrazioni sul testo.
Rileggerò City dal principio alla fine, forse.
Oppure, nel frattempo, magari mi sarà  passata la voglia di continuare questo lavoro, mi scrollerò di dosso la polvere di anni e  correrò altrove a respirare aria fresca perché «il barbaro cerca solo e sempre sistemi passanti: vuole stazioni intermedie che non soffochino il suo movimento, ma che, al contrario, lo rigenerino. Quando si accosta alle sequenze sintetiche (porzioni massicce di mondo coagulate in un unico punto) sa che corre un rischio: di rimanervi impantanato».  

E allora, se succederà, lascerò che sia.
MT

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