martedì 24 novembre 2009

Emmaus


Ho letto Emmaus
L'ho riletto, anche.
Si fa strada l'idea che questo libro non sia nelle mie corde se non per il fatto che contiene i temi e i riferimenti a quello che appartiene già a Baricco e a me.

Mi interessa come passo di un percorso d’autore che si intreccia in qualche modo alla mia vita e non è solo parte delle mie letture.
Non credo che Emmaus abbia aggiunto molto ai nomi che do alle cose e alle esperienze che vivo. Qualche piccola luce, sfumature. Niente bagliori epifanici capaci di illuminare zone oscure. Difficile che di Emmaus mi resti molto. Difficile che mi resti qualcosa che non fosse già altrove. Già rivelata.

Qualche emozione me l'ha lasciata, ma non di quelle emozioni figlie di un piacere delle corde o del cervello, oppure dello stupore che incantata o dell'enigma che affascina. Mi ha lasciato come emozione una sorta di oppressione opaca.
È una sensazione cupa, come di nebbia di sera mentre cammini sulla strada di casa di cui conosci ogni buca sul marciapiede e ogni filo d'erba che cresce nelle crepe del muro che costeggi.
E mi fa pensare, di contro, a quello che Baricco stesso diceva dell’effetto di disorientamento costruito per il lettore di City.
"tu a poco a poco diventi come una persona che si sta perdendo in una città. Questo ti rende più debole. A un certo punto sei un po' persa. Senti una musica di una fisarmonica. E tu senti qualcosa e dici: che emozione".
In Emmaus non puoi perderti, perché quella è la strada di casa. Ma non puoi neanche percorrere quella strada meccanicamente, senza vedere quello che guardi come si fa di solito con le strade di casa, perché c'è la nebbia che ti costringe a cercare ogni cosa che conosci, buca sul marciapiede o erba nella crepa del muro, per capire a che punto del percorso consueto sei arrivato. Conti i bagliori delle luci dei lampioni e sai sempre dove sei.
Nella nebbia, ma senza possibilità di perderti.
Immagino che anche questo effetto sia stato voluto da Baricco, come era voluto l'effetto del disorientamento ai tempi di City.
Lo accetto, ma sento il bisogno di chiudere con Emmaus e respirare aria più luminosa. Scriverci qualcosa e passare ad altro.
City mi aveva lasciato un bisogno di rilettura e la voglia di scavarci dentro.
Emmaus mi lascia il bisogno di chiudere con Emmaus.
Per chiudere con Emmaus però devo guardarlo in faccia e riconoscerlo lungo la strada di casa.
Potrei partire da questa cosa che qualcuno ha scritto sulla mailing-list di Oceanomare.com e che condivido:
Più vero di Questa Storia. Più essenziale di Senza Sangue. Meno cervellotico di City. Meno romanzo di quanto non dica quella scritta sulla copertina, infinitamente meno.
O da quest’altra:
Emmaus, Questa storia... erano già dentro di lui anche quando ha scritto Oceano mare, o Castelli di Rabbia, ma in forme e con urgenze diverse; sono le sue mille facce, è la sua complessità, è, in un certo senso la sua "arte".
Non c'è una svolta tematica in Emmaus, ché le buche sul marciapiede e i fili d'erba nelle crepe del muro sono quelli di sempre.
È l'evoluzione stilistica che non mi sembra la consueta sperimentazione di strumenti diversi per arrivare all'autentico attraverso la stessa tecnica di sempre.
Baricco stesso spiegava che la sua scrittura mirava a prendere l'autentico alle spalle, attraverso qualcosa di apertamente artificiale che, da dentro il nostro immaginario collettivo fosse stata capace di evocare bagliori epifanici dalle feritoie della superficie del reale (ché la vita vera, quella, si sa, non parla).
In Emmaus mi sembra di intravedere qualcosa di diverso sotto l'evidente asciugarsi della scrittura. Come il tentativo di un'altra scrittura. La ricerca di un altro modo per arrivare all'autentico.
Come se avesse detto: e vabbe', proviamo una nuova tecnica e vediamo se arriviamo agli stessi risultati o chissà dove.
E questa cosa poi, vai a capire perché, era nell'aria.
Come se sapessi che non poteva continuare con quella scrittura. Come se con Questa storia fosse chiaro che avesse messo un punto a quella scrittura.
Come se non ci fossero più spiragli per quello.
Ultimo si chiama il personaggio intorno al quale ruota Questa storia.
Penso all'ultima lezione di Kilroy in Lezione 21... era scrittura vecchia ormai quella di Baricco.
Penso che non avrebbe potuto fare altrimenti.
Certo, si potrebbe dire che in realtà Baricco con Emmaus sta solo guardando in faccia, una volta di più la sporcheria dolcissima del nostro vivere dentro i racconti che ci facciamo, unica alternativa al morire (o più probabilmente l'altra faccia del nostro morire). Si potrebbe dire che sta solo raccontando il nostro immaginario, utilizzando stavolta come parabola, anziché western, fumetti, film e letteratura americana, romanzi ottocenteschi e poemi omerici, quella peculiare narrazione che sono i testi sacri. Si può sicuramente dirlo e sentirsi sulla strada di casa, Iliade, Moby Dick, Vangelo, depositi di archetipi della narrazione.



Eppure, alla fine, c'è qualcosa che non quadra. Non mi sembra esattamente lo stesso tipo di lavoro.
La verità è che la continuità con i romanzi precedenti io la vedo proprio nell’offrirsi della scrittura di Emmaus come immagine speculare della scrittura dei romanzi precedenti..
Quello che mi sembra di vedere, guardando la scrittura di Emmaus, è un calco della scrittura costruita in precedenza da Baricco.
Come se avesse rivoltato uno di quegli stampini di gomma per dolci. Dove c'erano i vuoti, qui ci sono i pieni e viceversa.
Dove c’erano immagini visionarie costruite da una scrittura di una ricchezza debordante, qui ci sono parole di un nitore tagliente offerte da una scrittura di una perfezione essenziale.
Dove c'erano mondi narrativi che partivano da testi e sequenze cinematografiche per arrivare ad effetti di realtà, qui c'è un mondo in qualche modo reale che parte da contesti e ricordi di frammenti di vissuto per arrivare alla più alta delle costruzioni dell'immaginario condiviso, la dottrina del sacro.
Dove prevaleva una dimensione spaziale della scrittura, che accostava le storie come quartieri di una città, qui la variabile principale è il tempo, che sembra l'unico fattore determinante di accadimenti che non si dispiegano mai in una storia.
Dove c'era un punto di vista esploso, multifocale, senza centro, qui c'è un punto di vista immobile, a focale fissa, collocato in un punto preciso del tempo, esterno agli accadimenti.
Dove c'erano voci narranti che si specchiavano e sovrapponevano o si incastravano in un gioco di scatole cinesi, qui c'è un racconto che si srotola monocorde da un'unica voce, e poco importa che Baricco esibisca il “noi”, di un soggetto plurale.
Dove c'erano spinte centrifughe che portavano la mente o il cuore del lettore ad espandersi e vagare per le distese immaginate dal proprio sguardo o a inabissarsi nelle profondità percepite dalla propria sensibilità, qui c'è una forza centripeta che porta la mente o il cuore del lettore verso un punto immobile al centro della materia di cui è fatto.
Dove c'erano le Ninfee, senza coordinate, galleggianti in uno spazio senza gerarchie in cui non esistono vicinanza e lontananza, sopra e sotto, prima e dopo, che ruotavano, messe in movimento dalla curvatura delle pareti, a ritrarre lo sguardo di un occhio impossibile, qui c'è una Madonna nella totale l'immobilità di un sempre, senza peso che debba cadere, o piega fermata in qualche sciogliersi, o gesto da portare a termine, senza arresto del tempo nel taglio tra un prima e un dopo, in cui lo sguardo si inabissa, seguendo una traccia che sembra obbligata e si fissa in un unico punto, gli occhi vuoti, fatti per ricevere lo sguardo, cuore cieco del mondo.


Eppure...
Eppure i personaggi sono come sempre figurine di carta, icone, per quanto ci sia qualche elemento di descrizione in più.
Eppure la storia non è comunque una trama, e il libro è molto meno romanzo di quanto si potesse immaginare dalle anticipazioni e dalle recensioni sui giornali.
Eppure il tempo e lo spazio non sono, a guardarli bene, così contestualizzati come potrebbe sembrare e Torino e il Cattolicesimo degli anni settanta, non sono, in definitiva, altro che una città invisibile della mente, a metà strada tra memoria e immaginario, collocata in quel punto in cui i nomi che diamo alle cose e il nostro morire sfumano gli uni nell'altro.
Eppure il sistema percettivo anomalo di cui è calco l'occhio impossibile delle Ninfee è una condizione di dolore e negli occhi della divinità impossibile della madre vergine riposa lo sguardo di tutto ciò che nell'esperienza umana conosciamo come strazio e squarcio.


Un calco non è che il medesimo oggetto visto dall'alta parte. E alla fine, sono esattamente al punto di partenza.
Mi sa che non ho ancora chiuso con Emmaus.
MT

1 commento:

  1. Buon anno nuovo, MT. Sicuramente tutto cambierà per rimanere così com'è!

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